Un apprezzamento al testo ” Elogio alla notte” di Claudio Marucchi

Questo articolo è un apprezzamento al testo ” Elogio alla Notte” di Claudio Marucchi. Un elogio il testo stesso, un elogio a quel genere di densa profondità che impregna le parole dell’autore, mago, anima antica, Daimon…Dalla coscienza superiore di un uomo che incarna in opere e parole l’opus magico e le cui creazioni sono perle rare nel panorama di testi esoterici italiano….Nera Luce

A voi…

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“In principio era la notte”: potrebbe essere questo l’incipit di ogni cosmogonia. Appoggiandosi alla necessità logica e all’esperienza biologica, l’immaginario simbolico universale ha bisogno di porre un inizio, un momento di discontinuità rispetto al non essere, o forse al non saper di essere, per rappresentare l’avvio della Creazione, il primo movimento, la nascita del cosmo.

L’inizio è il primo momento, quando il tempo comincia a scorrere, quando deflagra il Big Bang.

Ma questa urgenza di concepire il primo istante è figlia di un difetto che soggiace alla nostra condizione: la percezione dello scorrere degli eventi in un prima e un dopo, e l’impressione che tutto ciò che esiste si sia come staccato da uno sfondo indeterminato. Eppure, proprio quello sfondo è il fondamento illogico e irrazionale, privo di qualunque determinazione e refrattario ad ogni definizione che precede l’inizio.

L’inizio può benissimo essere un’illusione, una teoria a cui è impossibile rinunciare, pena lo sconfinamento dell’indifferenziato, dell’assoluto e dell’eternità nei nostri impianti razionali, che finirebbero per ridursi in polvere.

Eppure, se il collasso della logica è un paradosso che può essere ricompreso all’interno della ratio che lo concepisce, la teoria dell’inizio deve allora confrontarsi necessariamente con un prima dell’inizio, prima del Tempo, dello Spazio e di tutte le cose. La precedenza ontologica del Nulla prima di qualunque manifestazione si traduce nei simboli rappresentativi di una feconda negazione.

Prima di tutto e di qualunque cosa, ogni cosmogonia pone il Nulla in qualche sua forma: il Chaos, il Vuoto, le Tenebre, oppure un liquido, illimitato e senza confini. Tali simboli sono la costellazione del Nulla, l’ospite più scomodo, che fa sentire sé stesso con il peso della sua assenza. Questo è l’archetipo primo, l’universale concezione della precedenza assoluta. La sua forma naturale e visibile è la Notte, feconda e silente.

La Notte è l’indistinzione primordiale, l’indifferenziato che precede la manifestazione. In quanto origine di ogni altro movimento archetipale e simbolo ancestrale di ciò che precede ogni inizio, la notte gode di piena autonomia simbolica, e si mantiene in assoluta indipendenza rispetto a qualunque altra realtà.

La Notte non conosce conflitti o dualismi, essendo il “prima di tutte le cose” si sottrae a ogni determinazione. E’ inclusiva di tutto, essendo lo sfondo di ciò che ancora non è venuto in essere, il vuoto senza che vi sia ancora qualcosa per riempirlo.

Questa è quindi la prima tra tutte le notti, quella che precede tutto, e seguirà alla fine di tutto. Non solo è il principio e il termine di tutte le cose, ma è anche lo sfondo durante l’intero corso dell’esistenza. Il suo essere velata dallo scorrere del tempo e dal continuo nascere e morire di intere galassie, e di tutto ciò in esse contenuto, non elimina la perturbante presenza della sua assenza, che ogni esistente prova a ricacciare indietro, a nascondere, a esorcizzare.

Questo è un possibile senso del mito del velo di Maya. Quando la Dea si separa dal corpo di Siva, dopo un coito che precede l’esistenza e rappresenta la suprema Notte senza tempo e senza spazio, lui cade addormentato. Lei cerca di risvegliarlo, di sedurlo, danzandogli intorno per tornare a unirsi a lui. Munita di un velo, come ogni danzatrice, in parte lascia intravedere e immaginare le sue sinuose forme, in parte le nasconde. Il velo diverrà lo schermo mobile su cui si proietteranno i sogni di Siva, emanati dal suo terzo occhio, che miracolosamente prenderanno vita e forma proprio mediante il velo, diventando la nascita, lo sviluppo e la storia del cosmo. Noi siamo il sogno e nel sogno di Siva.

L’esistenza ha la sostanza del sogno, e svanirà come i sogni svaniscono al risveglio, riassorbendosi nel terzo occhio di Siva, quando il dio tornerà a unirsi alla sua consorte, e l’eterna Notte senza tempo, il Nulla in forma romantica, ammanterà di discrezione il loro amore.

Nel mito cosmogonico tantrico appena citato, la separazione tra i due amanti rappresenta l’inizio; la nascita dell’esistenza coincide con l’interruzione del coito (il continuum della Notte senza stelle). L’amore di questa coppia divina è esclusivo, nel senso che esclude la presenza di qualunque altra cosa che non sia la loro unione. In tal caso la notte è assoluta e incondizionata, non c’è bisogno di alcun velo (simbolo di una “mediazione”) che condizioni il rapporto tra l’assoluto e l’esistente, la sola e splendida nerezza è un mantello sufficiente a simboleggiare e proteggere l’intimità.

L’inizio di tutto invece coincide con la fine del loro coito, pertanto il distacco, la ferita, il dualismo, servono a creare lo spazio affinché le cose possano esistere. E con quello strappo sprezzante della quiete di un dolce amore, che inizia il movimento (la danza) della natura (la Dea), ovvero il tempo.

Il velo serve a nascondere la verità più oscena: la nudità che esso cerca di celare (mai del tutto), l’amore che esso prova a separare (solo in parte), è il Nulla stesso. Dietro al velo pulsa qualcosa di questa nullità radicalmente enigmatica. Il velo stesso, in quanto mediazione, è il solo modo possibile di concepire il passaggio dal Nulla all’esistenza: il velo è la tangente che affetta l’assoluto in Nulla e Io.

Il mito ha dovuto introdurre l’elemento del sogno per giustificare quella sensazione che lascia sgomenti: ovvero che tutto, ogni esistente, ogni dato percepibile, sia in essenza così precario, incerto, forse vacuo, da sembrare un’allucinazione, una finzione, un sogno, una visione. Non è vero quindi che la realtà sia illusoria (cioè che non esista), è l’illusione a essere reale.

La nudità del Nulla è la sola verità possibile, inesprimibile se non mediante il velo, che acconcia l’essere con una parzialità, una precarietà che si presenta nella forma di un’inevitabile menzogna.

L’assoluto è una parola, un concetto per l’occultamento della verità. E la verità è Nulla, non si raggiunge, non si esprime, perché non è parte dell’esistenza, cioè non esiste. È a partire da considerazioni simili a queste che l’Oriente indiano o alcuni movimenti gnostici in Occidente e Medio Oriente hanno considerato l’esistenza alla stregua di una menzogna, e hanno pensato di porre la verità fuori dall’esistenza. Il problema è che hanno creduto di poterla raggiungere, hanno trovato soluzioni, modi di sottrarsi a un simile scacco (rinunciando alla corporeità, esaltando una spiritualità nemica del mondo e della materia) anziché lasciarsi dolcemente sprofondare in questo gioco multicolore e variegato.

Spostare la sede della Verità nell’invisibile, proiettare nell’aldilà il suo possibile attingimento, coltivare speranze di sapere, così come di “uscire” dal ciclo delle esistenze, significa allargare i confini della menzogna e cullarsi in un’illusione niente affatto diversa da quei discorsi consolatori su Dio, anima, salvezza, liberazione: questo sì che è parlare di Nulla! Se per la cultura spirituale d’Oriente l’esistenza è una colossale fregatura, che dire dei presunti metodi per uscire dall’esistenza e attingere alla suprema liberazione? Due fregature non si annullano a vicenda.

Gli egizi non avevano un afflato mistico così spiccato come quello orientale, essendo piuttosto impegnati in una visione magica della vita e dei suoi fenomeni, eppure uno dei miti cosmogonici più noti mostra sorprendenti somiglianze con quello appena visto. La dea Nut (un nome che richiama proprio la “notte”) era unita in un atto d’amore al dio Geb, e fino a che la loro unione perdurava non vi era spazio affinché potesse esistere qualunque altra cosa. Sarà un dio intermediario, Shu (che ha la stessa funzione del “velo” citato prima), che rappresenta l’elemento aria, a separare i loro corpi, rendendo Geb la terra e inarcando verso l’alto il corpo di Nut, dando così vita alla volta stellata. Solo allora sarà aperto lo spazio per permettere alle cose di venire in essere. Ancora una volta la separazione simboleggia l’atto fondante dell’esistenza.

Ciò è importante, perché mostra come il dualismo sia necessario a concepire l’inizio dell’intera esistenza, essendone implicitamente all’origine.

In questa vicenda mitologica, anche la considerazione del ruolo dell’eros riveste una certa importanza. La Notte e l’eros godono di una prossimità che non è solo simbolica, dato che entrambi si associano all’intimità, all’amore consumato in segreto e in silenzio. Nella trama dei miti greci. Eros è considerato uno dei figli della dea Notte.

La creazione è altresì associata all’immagine di una scintilla o di un lampo: la luce appare quindi come simbolica dell’inizio, inteso come l’interruzione di un continuum silente, compresso, gravido e fittamente oscuro. Tra il nero silenzio che precede e quello che segue ogni manifestazione, vi è il lungo discorso dell’esistenza. Il Verbo o Parola rappresenta un’altra formulazione della luce; il logos è il flusso luminoso che si stacca dallo sfondo notturno del Nulla, avviando e sostenendo il processo della vita universale.

Luce e logos, simboli gemelli, sono l’increspatura che apre il varco tra il non essere e l’essere, segnando il passaggio dal Nulla all’esistenza.

«In principio Dio creò i cieli e la terra. E la terra era senza forma e vuota e le tenebre ricoprivano l’abisso e il soffio di Dio aleggiava sulla superficie delle acque».

Anche il mito cosmogonico veterotestamentario attinge agli stessi archetipi: una separazione iniziale tra cielo e terra. Il vuoto senza forma che precede la nascita della luce e di ogni altra cosa. Un liquido chiamato genericamente “acque”, le tenebre e l’abisso. Sono tutti simboli notturni, espressioni traslate del Nulla.

Avviando il processo della creazione, disponendo cioè le diverse realtà cosmologiche in un ordine, Dio usa la voce («Sia la luce!») per manifestare i fenomeni («E la luce fu»). Li nomina, ed essi vengono in essere. Procederà di separazione in separazione (luce-tenebre; acque superiori-acque inferiori; mare-terre emerse), e il primo di tutti i dualismi sarà, naturalmente, quello tra la notte e il giorno. Così, oltre allo spazio e alle prime realtà esistenti, nascerà anche il tempo. La luce, interrompendo la quiete della Notte eterna, crea lo spazio, la forma e mette in moto il tempo.

Cosi è anche per la mitologia greca: il primo e più antico dio fu Chaos, da cui sorgono, per partenogenesi, Nyx, la Notte, ed Èrebo, le Tenebre. E’ solo dall’unione di questi che nasceranno Etere la luminosità del cielo – e Hemere – il giorno. La luce è un prodotto della Notte, è l’interruzione rispetto al continuum notturno. La stessa dea Nyx sarà sempre temuta da Zeus, essendo figlia del padre di tutto, Chaos.

A conferma di quanto esposto in precedenza, anche l’etimologia di “Chaos” soccorre l’idea che la separazione, l’aprirsi di uno spazio sia non solo condizione necessaria all’esistenza, ma il segno della sua nascita. L’origine del termine sarebbe infatti riconducibile al sanscrito kha, che indica lo spazio vuoto al centro di una ruota da carro, dove si inserisce il mozzo che le permette di girare. Il Chaos come vuoto posto al centro del cosmo è all’origine di ogni movimento. Dal più profondo centro della sua vitalità e attività, ogni cosa esistente grida la propria nullità.

Può quindi il Nulla essere il tratto comune al tutto? L’essenza-assenza infinita di ogni cosa finita, formata e limitata?