Rapimenti:quando la solitudine volge al Nulla

 

 

Noi abbiamo estorto al tempo i nostri vizi, dei quali i più alti andavano incarnando l’essenza di una nostra volontà ancora imperfettamente manifesta. E nel discostarci dal senso comune, dall’abbruttimento del profano, abbiamo intrapreso percorsi solitari, la cui appartenenza ci era tanto più vicina quanto commisurata al nostro allontanarci. Se c’era qualcosa in quel guado che ci separava dall’altra sponda, che ci ha spaventato nel suo connaturato fluire ed essere, essa poteva forse dirsi quella distanza lacerata che era stato il fondamento del densificarsi di quella solitudine amata, circonflessa, genuflettente. La misura della distanza che così tendeva alla ricerca del “Solo” ed “Unico” raro specchio ove riflettere noi stessi, aveva la tensione alare propria di quelle ricerche negli atavismi del tempo, necessari inabissamenti dell’anima che vuole superare il margine metafisico di un’esistenza troppo affollata. Di quei solo stanti momenti che ci appartennero, erano rimaste tracce nel tempo, nella mente, tra gli archetipi ineffabili di un logos inequivocabilmente nostro. E il mistero, segreto dei segreti, lambiva il terreno che allora ritenemmo nostro, come se quel tempo non potesse fare altro che fluire ed essere fluendo e manifestarsi anche altrove allo stesso tempo. La nostra solitudine era un grido tra le altezze e nelle profondità, e nel riflettere postumo altrove di quegli istanti, così come ora era allora, ci rendemmo conto che allora era adesso. Se stavamo cercando la fuga da ciò che ci straziava, estraendo dalle nostre possibilità una forma e una visione differente, tuttavia il fatto del ripetersi recidivo di tale avvenimenti, ci andava mostrando anche come quella solitudine ci appartenesse prima di tutto come stato dell’essere. Là, tra le volte stellate nel silenzio stridente e ventoso dell’impossibile, nell’allontanarci dalla corrosività delle menadi profane, ciò che manteneva e tesseva il senso di quell’augurarci ancora cento di tali giorni, era il nostro informe ed ineffabile esserci. Avevamo trattenuto l’esigenza di esserci ancora ed ancora, nel tramontare quotidiano di notti e giorni come questi, i giorni del senso comune, aspettando che lo splendore secolarre di altri tempi ci cogliesse nel rapimento del Nulla. E facendo questo riscontrammo ancora una volta di quanto quella connessione atavica con il nostro sé più elevato, fosse necessaria a tutti gli attimi, e fosse in ultimo ciò nella cui continuità stava il senso, la trama e il disegno della nostra esistenza complessiva. Tutti gli attimi si erano molecolarmente composti a formare un tessuto, una ragnatela dal gigante spessore, come la nostra carne in decadenza e se ci eravamo allontanati da qualcosa veramente, era perché da dentro di noi andavamo realizzando quel processo di creazione di distanza, così angosciante almeno quanto necessario al nostro Coronarci. Ora e allora, riconoscevamo quindi di Esserci, dove e solo quella fiamma alare di nostra appartenenza, andava dicendoci che la nostra casa era ovunque quella fiamma potesse ardere. E nel tentativo fugace di prendere le chilometriche distanze da quegli spazi affollati e urlanti, l’unica differenza vera, finale, era la vibrazione che avvolgeva le nostre membra. Se ovunque ed in ogni spazio, noi possiamo raccogliere quella memoria, immagine, di quei momenti che ritenemmo appartenerci, allo stesso tempo tutto quello, poiché volgeva al nulla, poiché gridava alle altezze e agli abissi, si era innalzato. Esso era cioè divenuto parte di quella conoscenza sottile, le cui connessione molteplice ed infinita con le immagini terrestri, potevano rapire lo sguardo ubiquo di ogni ente veggente, di ogni mente riunita. Se dicessi che lassù ero sola, quindi, starei mentendo e mentirei a me stessa in eterno, poiché non lo sono mai stata. Non nell’essere. Nella misura in cui esprimevo il fatto di esistere e volere Volere e quindi Essere, tutto ciò che accadeva ad un altro livello incarnava l’immagine, il simbolo, l’essente. E ovunque nel mondo e fuori da esso, da ogni punto della circonferenza che tesseva il centro della fiamma, la connessione stabiliva un nesso tra me, il Cosmo e Tutto. La nostra solitudine più grande allora corrispose ad un essere fuori di noi e con Tutto, lontano dalle interferenze che confondevano la sensazione con troppo rumore e cemento. Quei rapimenti condivisi ubiquamente con Tutto, noi li abbiamo dati in dono agli spazi frammentati, lo abbiamo gridati dalle altezze. Ciò che amavamo di quella solitudine era lo strazio della distanza, la distanza il cui superamento ci avrebbe riportato al fatto taciuto e reale del nostro non essere più soli. E nel tornare da altezze che erano incommensurabilmente nostre, che ritenevamo solo nostre, sapevamo anche che da qualche parte ciò che abbiamo lasciato oltre la distanza che abbiamo posto tra noi e il nostro senso comune, era una parte inscindibile del nostro percorso e sia pure negata, è sempre stata presente. Non ci rinunceremo mai perché siamo forse più disponibili a sacrificare lo spazio al tempo, perché lo spazio presiede la vista e il tempo onora la percezione unica ed autentica del nostro essente. Ciò che non sapevamo era che quelle immagini le stavamo condividendo con il Cosmo, creando così una memoria unita parallela che dalle nostre profondità esigeva la connessione e la condivisione. Forse la nostra condivisione più viscerale, quella con il Nulla Informe da cui tutto poteva potenzialmente trarre origine. Di quel genere di solitudine abbiamo amato il senso dell’Immensità, che lacerando l’uomo, lasciava l’anima libera di esporsi e respirare. Ma in fondo, volendolo davvero, scegliendo di sacrificare il tempo al posto dello spazio, ovunque ciò sarebbe stato possibile.

 

Nera Luce